Che
cosa c’è da dire ancora sulla vita di Gianni Minà, oggi 84 anni, che
non sia stato magistralmente riassunto nella battuta di Fiorello
«Eravamo io, Bob De Niro, Fidel Castro e Gabo Márquez»? Ben poco. O
forse no. Perché giornalisti come Minà hanno il dono di trasformare ogni
racconto in una piccola epica del quotidiano, illuminando ogni volta un
particolare decisivo, come sapevano fare gli impressionisti. Suoi sono
programmi storici come Blitz o Alta Classe, suoi documentari su
personaggi come Che Guevara, Muhammad Ali, Fidel Castro. Certo, quella
foto memorabile che la ritrae assieme a Sergio Leone, Robert De Niro,
Muhammad Ali e Gabriel García Márquez sta lì a dimostrare una
vita-carosello di incontri straordinari.
Può dirsi felice a questo punto della sua carriera? E che cosa vuol dire per lei la felicità?
«C’è
un uso improprio, anzi un abuso della parola “felicità”. Implica uno
stato di grazia che quasi mai si raggiunge. Possono esserci degli
attimi, la nascita di una figlia, lo scoop inarrivabile, lo sconcerto di
pensare “è successo proprio a me”. Ma se uno si sofferma troppo sulla
propria felicità perde di vista gli altri, il mondo. La nostra identità
si esprime attraverso di loro, in un rapporto virtuoso. Invece da troppi
decenni ci hanno voluto inculcare la balla che la felicità si
raggiungere consumando tutto. Se guardo indietro posso dirmi soddisfatto
della mia carriera. Ma non l’ho mai considerata “carriera”. È stata, lo
è tutt’ora, parte importante della mia vita, un atteggiamento
interiorizzato da quando sono un adolescente, sempre alla ricerca di
persone da conoscere, da ascoltare, sempre alla ricerca di fatti cui
valga la pena raccontare
25 marzo 2024
preso Corriere della Sera
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